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Prenditi cura delle stelle che resistono. E di quelle che continuano a brillare. E di quelle che cadono e magari si frantumano la magia pur di farti felice. Abbi cura. Abbraccia le stelle. Non solo l’undici agosto, non solo a San Lorenzo, non solo nelle notti d’estate. Abbine cura sempre. Anche quando tutto sarà spento. Anche quando finirà questa magia e lascerà spazio alla neve e alle foglie rosse dellimbrunire. Abbiate cura. Tienitii strette le lucciole dei desideri. Tienine poi sempre una di scorta. Ti servirà nelle notti senza luna.

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Oggi un bambino mi ha chiesto come stavo, ed un altro ancora mi ha regalato una margherita, sapete? Nello stesso giorno, poi a qualche migliaia di km a distanza, un soldato in Ucraina a Fastvid ha fermato una auto al chekpoint, per effettuare una perquisizione. Quando l’auto si è svuotata e le persone sono scese, il soldato si è inginocchiato davanti ad una delle ragazze scese dal sedile posteriore della vettura. Si inginocchia con un bouquet in una mano e un anello nell’altra. Le chiede di sposarlo, in mimetica, con un giubbino antiproiettile ed il kalashnikov imbracciato. Ecco, quando l’amore sta nelle piccole attenzioni di un bambino, nei petali di una margherita e addirittura sotto le bombe di un conflitto, tutte le armi si possono abbassare. Perché no, oggi non c’è guerra che tenga. Ditelo anche a Putin.

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Sono una di quelle persone che vede la tempesta anche di fronte al volo lieto di una farfallina blu. Non sono tranquilla, non ho tempo, non ho indicazioni sul fatto che possa essere giusto, sbagliato, pesante, complicato, ma sono certa che sia il mio modo di tenermi a galla. Quello di andare oltre. Quello di vedere un po di quel meglio in tutto il peggio che ci circonda. Anche quello è un passo difficile. Io non saluto le allodole, mi viene più semplice salutare i corvi. Io prediligo il nero, ma solo se con un paio di anfibi riesci anche passeggiare in silenzio sulla neve. Io sono fatta per la musica che ti fracassa l’udito, ma riesco a vederci tutto l’amore possibile anche in un pogo sotto il palco di un concerto. E non è facile fare della guerra che si vive dentro, qualcosa che somigli alla pace di un sorriso. Sono una di quelle persone sbagliatissime che in fondo, in qualche modo, in un angolino nascosto del cuore, vede tutto giusto.

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Scrivere è qualcosa che sta tra il ricordare, il prendersi per mano, il tenersi forte, il buttarsi fuori, l’esprimere il cuore, farsi un giro nell’animo. Proprio e pure in quell’altrui. Scrivere è come respirare quando l’ossigeno manca per una nuova primavera. È il solletico di un fiore. È un bicchiere che si scheggia. È un gelato con la panna montata. È un palloncino libero. Può essere che arrivi fino a toccare il sole. Oppure che si posi sgonfio su un campo di papaveri. Scrivere è detestarsi e amarsi. È una bolla di sapone nel momento esatto in cui un bambino prova a tenerla fra le mani e le esplode. È l’odore della pioggia e pure quello della prima grigliata in famiglia. Scrivere è paura. Ma non tanta. Giusto quella stessa sensazione di insicurezza un momento prima di stringersi sotto le lenzuola. È quel momento lì. Eppure li, tra una riga e l’altra, c’è un frammento di quello che sei. Scrivere è come un bacio sulla fronte, dopo aver fatto l’amore. È la felicità che ti fa un anche un poco poco piangere.

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Mi ispeziono il cuore e penso che la bellezza o te la senti dentro oppure addosso è un gran difficile vederla. Quindi anche se sono cessa e molto probabilmente i filtri aiutano va bene così. Essere belle non è questione puramente di fisico, è qualcosa che sta dentro al mondo che gira fuori. Imperfezioni dell’anima a parte, posso anche ritenermi fortunata.

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C’è questa cosa di me di cui mi stupisco, mi vanto ed un pò mi fa pure un tantino schifo. Insomma, non so proprio bene come prenderla. Questa cosa qui è la non pietà, la non commiserazione, il “non me ne frega niente se hai visto il dolore perchè non sei l’unico e fa parte della vita” verso l’altrui prossimo. Sono fatta così e ammetto che molto probabilmente non sono questo grande involucro straboradante di solidarietà neppure se si tratta del gentil sesso. Infatti, dubito fortemente in quel raccontare e nel raccontarsi come un susseguirsi di tormenti e paturnie per tenersi vicino qualcuno. O semplicemente per accaparrarsi il bene, la stima e la benevolenza dell’universo. Sono fatta cosi. Badate, questo non significa ricordarsi o parlare solo di cose belle, fiori e fate, ma significa fare una scelta ben distinta e ponderare bene cosa raccontare, come raccontarlo ed il motivo per cui si vuole fare conoscere un proprio dolore al prossimo. Ecco, ches’tè. Quando mi dicono: “Ma Ale la solidarietà verso le persone dove ce l’hai? “. Io, a questa domanda non rispondo quasi ma, perchè le parole non mi vengono subito e perchè dentro di me, mi succede che no riesco a concepirmi come “una brava persona”. O meglio, spesso ci piango pure, perchè sento di deficiere di quel briciolo di empatia ed umanità che vorrei avere anche e sopratutto verso queste cose qui. In realtà, forse ce l’ho pure. O meglio, solo in un caso: se da quel male dentro e fuori si arriva ad essere un pochetto migliori. Invece il più delle volte, lo si usa solo come alibi e scusa per essere commiserati ed esonerati dal non rompere i coglioni quando tutto va a puttane. Quando molto probabilmente va a puttane anche per la maggior parte della gente.È lì il mio problema, il mio limite con il mondo con i cerotti e pieno di lividi per le botte prese. È lì che mi sale la cattiveria. Perché io il coraggio di guardarmi dentro e buttare fuori il meglio ed i sorrisi prima di quella parte stanca e desolata per ciò che succede, ce l’ho anche io sappiatelo, solo che la rugiada che spesso mi bagna gli occhi ha quello stesso incanto di un petalo bianco che si lascia accarezzare dalle goccioline di brina di prima mattina. E il mio gelo che mi riempie di calore.

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Credetemi. Esternare un emozione non è mai semplice. Quando lo faccio lascio che tutta sfugga su carta prima che mi si sciolga nel cuore. Sapete che c’è? Mi guardavo e non ho mai dato troppa importanza neppure a me stessa. Ho sempre pensato che nel mondo fuori, non ci sarei mai stata troppo bene, anche se caso strano vuole che io il ventuno gennaio ottantotto ebbi fretta di conoscerlo. Sono nata prematura. Piccola, ma tanto. Tanto da passare ad incubatrice a culla termica prima di stare tra le braccia di mia madre. Non ero pronta per gli abbracci, e ho fatto spaventare mamma fin dall’inizio. Sono pure sparita una volta, con mia cugina, quel giorno ne ho prese e sentite talmente tante che credo di avere avuto per la prima volta un trauma di quelli che i genitori ti lasciano solo quando ti lanciano la ciabatta. La me più piccola, ha sempre guardato il mondo in silenzio, senza dar fastidio. Due disegni forse, e tante, tantissime righe, fin dalla prima elementare, quando con mamma consegnai un compito: un tema dove parlavo di una mongolfiera tutta verde, che sorvolava il mondo. Ho capito solo a Roma che a me, per essere felice. sarebbe bastato un solo palloncino, verde anche quello ed un concerto che mai, mi sarei sognata lontanamente di poter vivere. E sentire. Soprattutto sentire. Mamma dice che in fondo da piccola era brava. E aveva ragione. Non sono mai stata una cattiva ragazza, una cattiva bambina, ma arrabbiata, quello sempre, si. E pure tanto. Forse lo sono anche adesso. Non una rabbia cattiva, ma la stessa malinconica nostalgia di qualcosa che mi manca di continuo. Lo cerco spesso. Nelle parole, negli abbracci, nelle fotografie. Ed in questa. In questa foto dove tempo fa dicevo di sembrare un maschietto con quel taglio e quella maledetta mollettina, mi ci verrebbe da tuffarmici dentro per spiegare a quella me bambina che il cuore probabilmente farà il suo dovere, che il suo futuro non saprà essere sempre facile, anzi che potrebbe essere terribilmente difficile. Le ricorderei di non sprecare neppure un sorriso, non uno di meno di quelli che gli si coloreranno sulla bocca. Anche nei momenti più duri. La abbraccerei, le donerei un bel palloncino verde ed una musicassetta dei Linkin Park e poi le schioccherei un bel bacetto sulla guancia sinistra, -la stessa parte dove il suo cuore riesce ancora oggi a parlare-. Le ricorderei di perdersi nelle storie e di cercarsi sempre. Di abbandonarsi fiduciosa perche si ritroverà a guardare il mare senza sentirsi sopraffare. Le direi di non piangere ma quando le verranno dette cattiveriei. Neppure quando verrà presa in giro seduta nel suo banchetto con la merendina e la sua penna preferita. Le direi di farsi coraggio. E non solo nell’alzare la mano per essere prima in un un’interrogazione ma sopratutto nel fare valere le proprie ragioni. Le ricorderei che è bellissima, e fortissima. Anche quando mamma starà male. E quando anche a papa mancheranno le forze. E le dirò di amare forte, e di scrivere ciò che prova per ricordare al cuore che l’amore non fa solo male. E che se ne fa, fa tutto parte del gioco. E poi dopo averle accarezzato le gote rosse le direi semplicemente di non aver più paura perché io, sarò sempre con lei.
Sempre.
E ancora un po’.

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Ci sono poche cose nelle vita che mi rendono felice, lo ammetto. Non sono una di quelle persone che sanno guardare con positività estrema tutto ciò che le circonda, ma voglio pensare che quelle poche volte in cui sorrido -per davvero-, ci sia davvero qualcosa di speciale a farne da sfondo. Non posseggo un bagaglio culturale avanzato, viaggio con i libri, le cuffie e le canzoni. Non sono una di quelle che si rifà alla politica per spiegare come la pensa e più che guardare gli altri, ne sono consapevole, ho imparato ad osservare me stessa. Le mie risposte alla società. Non voglio dire di essere perfetta ad essere quel tantino egoista. Anzi. Voglio dire che ho imparato a pesare le mie risposte al mondo, perché non sono mai buttate li a caso. Ogni cosa che dico, che faccio, che sento, che esprimo, porta dietro di se, tutto quell’immenso e quel vuoto che è stato di me prima di arrivare alla Alessia che sta battendo sulla tastiera queste parole. Un’ Alessia che non ha mai smesso di avere paura del mondo, da sempre, ma che ha imparato a difendersi, chiudendo gli occhi. E guardando meglio dentro se stessa. No non è la cosa migliore, a volte. Eppure mi sento salva solo conservando i dettagli semplici che fanno bello anche il mare di cui ho paura. S’imparano tante cose dal rumore della pioggia, dalle note di una canzone, da un goccia di pioggia che scivola sull’erba del mio giardino, dal profumo di libri su carta, dall’abbraccio stretto di chi ti ama e da come ci si sente dopo un bacio sulla testa, e poi sugli occhi. Ho imparato che alle mie lacrime, voglio bene. Che alla mia corazza ed al mio mondo, per ciò che pensano gli atri, non ci voglio affatto rinunciare. Ho compreso che la vita non è cattiva, ma bisogna saperla accarezzare, sopratutto quando fa male e accettare, un po’ di più ogni rugiada che ci viene concessa.
Ecco, io m’immagino come una di quelle goccioline che hanno preso il volo del mare, e invece di un ciuffo d’erba hanno scelto di scivolare sul petalo di un fiore. Magari cascheranno e nessuno si ricorderà mai di loro, ma che ne sa’ il mare dell’incanto che sono state?